lunedì 8 settembre 2014

Linkin Park - The Hunting Party




1) Keys To The Kingdom
2) All For Nothing (Feat. Page Hamilton)
3) Guilty All The Same (Feat. Rakim)
4) The Summoning
5) War
6) Wastelands
7) Until It's Gone
8) Rebellion (Feat. Daron Malakian)
9) Mark The Graves
10) Drawbar (Feat. Tom Morello)
11) Final Masquerade
12) A Line In The Sand


Certi gruppi sono davvero curiosi. Non riesci mai a capire in che direzione vogliano andare perché la cambiano continuamente, sempre pronti a cercare territori da loro inesplorati. Altri invece sono molto facili da inquadrare perché si comportano come i modelli: una volta trovata la posa giusta è fatta, basta ripeterla quando serve e vanno a colpo sicuro, perché è la loro posa e se tentassero di trovarne un'altra rischierebbero di non venir bene come prima. Potremmo stare giorni interi a discutere su cosa sia meglio fare e cosa no, ma una risposta assoluta non esiste, solo opinioni. Nel primo caso rischi di prendere un sentiero che non conosci abbastanza bene e di perderti, senza sapere dove andare. Nel secondo potrebbe venire qualcuno e dirti che sei ripetitivo, che sai fare solo quello e basta.
Su una cosa però possiamo essere tutti d'accordo: il primo caso è quello più intraprendente. E la mia opinione è che un'aquila non potrà mai imparare a volare se resta ferma nel suo nido e non si lancia nel dirupo rischiando di farsi male o morire. Quindi tutti quegli artisti che corrispondono alla seconda categoria sono delle potenziali aquile, ma nessuno lo saprà mai con certezza se decidono di comportarsi da galline.


Per questo i Linkin Park sono uno di quei gruppi che merita rispetto, che piacciano o meno. Sempre pronti a mettersi in gioco, a cambiare sentiero, a saltare dal precipizio con la speranza di spiccare il volo. Nella loro carriera ci sono stati alcuni voli alti e leggiadri come Hybrid Theory e A Thousand Suns, altri meno eleganti e altri ancora abbastanza sgraziati, come Minutes To Midnight e Living Things. Con The Hunting Party, la loro ultima fatica, i Linkin Park
fanno uno dei salti più pericolosi della loro carriera, ma ne escono indenni con uno dei loro voli più belli e maestosi.
Un salto pericoloso, perché pensare che uno dei gruppi più popolari e di successo commerciale del panorama musicale possa aprire il loro nuovo album con un brano come Keys To The Kingdom è una vera follia. Ma funziona, e incredibilmente bene. Chester Bennington tira fuori tutta la rabbia e la potenza che negli ultimi tempi sembrava essersi smarrita e inizia il brano urlando a squarciagola con una voce distorta e ansiosa, accompagnato dalla martellante batteria di Rob Bourdon, in forma come non mai, per poi lasciare spazio alle devastanti chitarre di Brad Delson e alla voce di Mike Shinoda, che nella seconda strofa si diletta in un rap dai ritmi elevati. Una delle tracce più violente della loro intera carriera che farà la gioia di tutti i loro fan di vecchia data. Si prosegue con All For Nothing che vede la collaborazione di Page Hamilton, cantante degli Helmet. Mike Shinoda prende in mano la situazione e si scatena con un rap graffiante. Hamilton sembra nato per cantare il ritornello di questo brano che si adatta perfettamente alle sue corde, mentre le parole di Bennington suonano come un grande pugno in faccia verso tutti gli oppressori e i traditori. Che in esse ci sia anche un messaggio velato rivolto verso chi li ha costretti a prendere determinate scelte in passato sta a voi deciderlo. Guilty All The Same non ci lascia un attimo di tregua e ci spara addosso la devastante batteria di Rob Bourdon, che in quest'album fa scintille (lo ripeterò molto questo) e il cattivissimo riff di Delson, che da tempo non ci regalava qualcosa di così ispirato e trascinante. Bennington ci mette molta energia e colpisce duro nel ritornello, ma l'apice del pezzo viene raggiunto quando entra in scena Rakim, una leggenda del rap. Il suo flow è pazzesco e viene supportato in modo magistrale da Bourdon. Un brano notevole che live fa terra bruciata.
La successiva The Summoning è un interludio che preso singolarmente è abbastanza sciapo, ma che ascoltata prima di War aiuta a creare molta atmosfera. Una miccia innescata pronta ad esplodere in un concentrato di punk rock duro, crudo e spietato. Mai i Linkin Park avevano osato allontanarsi così tanto dal loro territorio e il risultato è sconvolgente. Chi pensava che i giorni di gloria di Chester Bennington fossero ormai finiti dovrà ricredersi, perché il cantante ha ancora delle urla potenti e rabbiose nascoste nelle sue corde vocali e questo brano ne è la prova. Un pezzo inarrestabile che non lascia scampo ("Non c'è pace, solo guerra. La vittoria decide chi ha ragione o torto") e dove emergono ancora una volta le incredibili qualità di Bourdon, ma anche Delson sembra essere finalmente uscito dal suo guscio. E continua a dimostrarlo con la successiva Wastelands, dove un riff che farà saltare ogni persona presente a un loro concerto sfocia in un altro rap di Shinoda tagliente come un rasoio, anche lui in forma smagliante. L'unica cosa che lascia un leggero sapore amarognolo in bocca è il ritornello che sembra ricalcare quello di Guilty All The Same, il che non è una cosa negativa ma un po' più di fantasia non sarebbe dispiaciuta. Until It's Gone è uno dei due episodi meno aggressivi dell'album che rallentano i ritmi sfrenati e senza controllo. Le tastiere di Joe Hahn e il lavoro alla produzione di Shinoda si fanno sentire in questo brano drammatico dove Bennington mette tutta la sua versatilità vocale, creando un'atmosfera cupa. La frase "Perché non sai ciò che hai finché non lo perdi" viene ripetuta quasi ossessivamente e rimane impressa nella mente, anche se suona leggermente di già sentito. Nella successiva Rebellion si sente tutto l'apporto dato da Daron Malakian, chitarrista dei System Of A Down. Il pezzo infatti sembra quasi una loro b-side, sia nel testo che nello stile musicale, ma si adatta in modo sorprendente ai Linkin Park grazie alla grande alchimia tra Shinoda e Bennington che nel ritornello fondono le loro voci in un coro di ribellione. Inutile dire che l'apporto di Malakian alle chitarre è davvero notevole, supportato da un fenomenale Rob Bourdon che si scatena come un uragano.
Mark The Graves segna uno dei punti più sperimentali della carriera dei Linkin Park per via della sua struttura. Il lavoro strumentale è sontuoso, insolito, sempre pronto a sorprendere e a stupire con continue esplosioni di chitarre, basso e batteria. In netto contrasto con il cantato dolce e delicato delle strofe, ma perfettamente in linea con la rabbia e la potenza vocale di Bennington nel ritornello. Due facce della stessa medaglia, testa e croce, un campo minato in cui dopo ogni esplosione segue la calma mortale. Da non perdere, ma richiede tempo per essere apprezzata al meglio. Anche nella strumentale Drawbar troviamo la collaborazione di un altro chitarrista, il grandissimo Tom Morello dei Rage Against The Machine. Considerata la forte presenza ci si sarebbe aspettato qualcosa di più da questa traccia che crea molta atmosfera e viene direttamente da una jam session, ma il risultato è comunque soddisfacente. Morello si limita a qualche arpeggio e ad alcuni effetti appena accennati, accompagnato al piano da Shinoda e alla batteria da Bourdon. Nel finale Shinoda anticipa al piano quello che sarà il tema principale di Final Masquerade, il secondo episodio meno aggressivo dell'album. Un brano malinconico che piacerà a tutti i fan dei Linkin Park, sia vecchi che nuovi. La canzone gira tutta intorno al suddetto tema già presentato in Drawbar che viene ripetuto parecchie volte, anche dalle chitarre, ma non risulta monotono o ripetitivo. Bennington ha un talento naturale nel creare empatia con l'ascoltatore e lo rende pienamente partecipe del sentimento trasmesso dalla canzone.
L'ultima canzone è A Line In The Sand, un brano che rappresenta l'apice artistico della carriera dei Linkin Park e che riassume tutto ciò che è stato questo gruppo dagli inizi fino ad oggi e si impone come una delle migliori canzoni della loro carriera. Un tripudio di aggressività, rabbia, frustrazione e rimpianti, che esalta tutto il talento di Bourdon alla batteria e mette finalmente in luce le qualità tecniche di Delson alla chitarra, ma ogni singolo membro del gruppo ci mette tutta la sua energia e la scarica come un fiume in piena. Le atmosfere desolate e apocalittiche create dalla voce di Shinoda si scontrano con la tempesta generata dalla voce di Bennington che devasta ogni cosa nel finale esplosivo e travolgente. E tutto si chiude con calma glaciale, la voce di Shinoda ci culla verso la fine e tutto svanisce nel nulla.


The Hunting Party è energia pura, una scarica di adrenalina che attraversa tutto il corpo e lo scuote fino a rigirarlo come un calzino. Sorprende minuto dopo minuto e mostra il grande talento compositivo e artistico di un gruppo che dopo ogni passo falso rialza la testa sempre più in alto. Per la prima volta un loro album di inediti vede la collaborazione di artisti esterni che danno un contributo significativo e importante alle tracce, tranne forse quella di Tom Morello. La rabbia è quella che caratterizzava i loro primi lavori, ma tutto il resto è maturato, si è evoluto con loro e li ha portati a scrivere quello che è il miglior album della loro carriera insieme ad A Thousand Suns. C'è da dire che il rischio nel pubblicare un album del genere in un periodo in cui le radio passano esclusivamente musica pop o elettronica è altissimo, ma il fatto che l'album sia stato prodotto proprio da Mike Shinoda e Brad Delson dimostra che questa è la strada che vogliono intraprendere, almeno finché non decideranno di lanciarsi in qualcosa di nuovo. Perché questo è un gruppo camaleonte, sempre pronto a mettersi in ballo, a rischiare, a lanciarsi dal dirupo. Lo schianto può essere fatale, ma spiccando il volo diventi padrone del tuo destino. E nessuno può più fermarti.


VOTO: 9



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